Intervista con Marco Biffi - Professore Associato del Dipartimento di Lettere e Filosofia, Linguistica Italiana. Professore e Ricercatore Linguistico Italiano all’Università degli studi di Firenze.
Cosa ci può dire riguardo all'uso di alcuni tecnicismi e anglismi emersi durante l’emergenza sanitaria che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo?
“Una delle caratteristiche della lingua utilizzata per parlare del Coronavirus è proprio il frequente impiego di tecnicismi e anglismi. Questo spesso accade anche dove è invece possibile offrire delle traduzioni che avrebbero permesso una maggiore comprensione di ciò che stava accadendo. Pensate che la pagina della commissione Europea, che dava le informazioni sul coronavirus, è stata interamente in inglese per 10 giorni nonostante ci siano state fortissime sollecitazioni anche da parte dell'Accademia della Crusca verso una soluzione multilingue, anche perché la politica europea è quella di una società multilingue. Sono state accampate scuse sul fatto che non si riusciva ad avere una traduzione, ma francamente si trattava di un documento piuttosto sintetico e tranquillamente traducibile.
Anche in Italia le cose non sono andate meglio. Sin da subito sono state usate parole come droplet, che significa gocciolina, che era del tutto opaco alla maggior parte delle persone, soprattutto alle persone anziane. E’ vero che gli anziani avranno avuto a disposizione l’aiuto di familiari più giovani, però la nostra costituzione attesta che le cose devono essere trasparenti per tutti a prescindere dalle mediazioni.
Il fatto che questa chiave di accesso fosse così poco trasparente non è un fatto da poco. Su questo c’è stata molta polemica e anche l’accademia della Crusca ha richiamato più volte l’attenzione su questa problematica. A volte l'uso del tecnicismo è importante ma l’abuso del tecnicismo è piuttosto pericoloso.”
Si è parlato in questa emergenza sanitaria di Infodemia ovvero, secondo la definizione della Treccani, “la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rende difficile l’orientarsi su un determinato argomento”.
Quanto è importante il ruolo della lingua nella comunicazione di un determinato uso del linguaggio che sia inclusivo per tutti, nell'informazione che passa dai telegiornali, giornali, o notiziari online di cui ormai usufruiamo tutti i giorni?
“La lingua è sempre centrale nella comunicazione, però sull’Infodemia in se può ben poco, nel senso che può lavorare sul livello di trasparenza di ciò che si dice ma non sulla quantità di informazioni che circolano. Perché la troppa informazione, quella non precisa e non verificata purtroppo la si può esprimere anche in un perfetto italiano, molto chiaro e trasparente che origina gli stessi danni.
Qui il problema non è linguistico ma più ampio e generale. Noi viviamo in una società in cui non abbiamo poca informazione; anzi ne abbiamo troppa e spesso non controllata.
Ci sono vari problemi. Ci sono gli utenti esperti e ci sono utenti non esperti. Per utente esperto intendo un utente avveduto, critico che trova un’informazione in rete e si preoccupa almeno di verificarne la fonte. Parte del problema è questo: la verifica delle fonti. Quanti di coloro che distribuiscono l'informazione andranno veramente a verificarne le fonti?
Qui però bisogna sforzarsi, perché la lettura critica delle informazioni è importantissima in questi casi. Pensiamo anche all'uso del web 2.0 dei social network, dove passa gran parte dell’informazione, insieme anche alle fake news e alla possibilità di inserire commenti di qualsiasi tipologia senza essere spesso sorvegliati, creando di conseguenza molta confusione.
E poi c’è l’effetto post verità, cioè che spesso le persone vogliono credere a delle cose anche se si tratta di cose che potrebbero essere verificate come false. La post verità ha giocato effetti importanti anche prima del coronavirus. Ha influenzato le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, l'uscita del Regno Unito dall'Europa e ha anche un po’ influenzato la percezione del corona virus. Pensate a tutti i movimenti negazionisti che ci sono, come ad esempio quelli che credono che la terra è piatta nonostante le prove scientifiche dicono tutt’altro.”
In questo, le istituzioni e gli intellettuali non dovrebbero confrontarsi di più con il mondo social?
“Io sono responsabile all’accademia della Crusca e noi abbiamo canali social: Facebook, twitter e instagram. Nonostante ci confrontiamo continuamente è comunque difficilissimo fare determinati discorsi sui social. Se andate a vedere la pagina Facebook dell’Accademia della Crusca troverete delle zone in cui ci sono degli insulti pesantissimi di fronte a delle cose oggettive, come nel caso della post verità. Questo dimostra che certi discorsi non hanno nessun fondamento e si viene anche aggrediti in una maniera forte. Bisogna impegnarsi in questo campo perché è facile parlare ad un pubblico che ti ascolta, ma la vera sfida sta nel farsi capire e spiegare le cose a chi non vuole ascoltare.”
L'ultima domanda, che forse paradossalmente è la più difficile a cui rispondere, è la domanda che da il titolo alla nostra iniziativa: Cosa salva di questo 2020?
Il 2020 coincide con l'esperienza Covid-19 e quindi non si può parlare d’altro. Di questa esperienza forse si può salvare il fatto che molte parti della società italiana hanno saputo reagire in modo adeguato a questa crisi. Penso alle imprese, alle industrie, una parte dell'asse politica, le università e i centri di ricerca. Posso parlare dell'attività di ciò che conosco meglio, più direttamente, per l'università e la ricerca all’Accademia della Crusca. C'è stato un grande sforzo nel continuare a fare le cose laddove non era possibile. Ad esempio, docenti che ormai erano prossimi alla pensione si sono dati da fare per far lezioni a distanza, acquisendo mezzi tecnici nuovi. Queste esperienze di come si è affrontata la possibilità di fare cose a distanza secondo me è un patrimonio che può essere utile nel futuro.”